No. 152/NUEVA NOVELA ITALIANA

 
Jack Frusciante ha dejado el grupo (fragmento)


Enrico Brizzi
Jack frusciante è uscito dal gruppo, Baldini & Castoldi, Col. “Romanzi e Racconti”, 1995, pp. 37-43
 

Quel sabato pomeriggio in cui si doveva dare il via alla Serata Etilica E Stai A Dormire Da Me, lui era entrato per la prima volta in casa di Martino sudato e a disagio al punto giusto. Fortunatamente, nessun personaggio più o meno stronzo o in livrea solcava i corridoi, costosissimi, della villa. L’arredo del luogo appariva paurosamente simile alla casa della donna che il protagonista ultravivace di Arancia meccanica sprangava a morte servendosi del solito cazzo in ceramica: Quadri Antichissimi, Fucili da Caccia, Arazzi, la Kollezione Kompleta dei Piatti Blu di Danimarca…

Invece la stanza di Martino era esattamente come Alex aveva immaginato: classica tana di chi si fa i cazzi suoi e ottiene altrettanto dal resto degli abitanti. Tutta gente che si limita a stargli intorno senza soffocarlo, voglio dire.

Insomma, c’era quest’aria molto da tana, ma la stanza era tutt’altro che piccola. Solo, era piena. Piena zeppa di cose come in quella cavolo di pubblicità delle timberland: poster ovunque, vestiti ovunque, coperte peruviane dappertutto, foto dappertutto.

Il vecchio Alex avrebbe potuto restarci delle ore, là dentro, solo per sapere i nomi dei tizi ritratti nelle foto che campeggiavano sul pannello in sughero che sovrastava il letto; oppure per leggere i titoli sui dorsi dei dischi e delle videocassette. Per quelli dei libri, invece, sarebbe stato sufficiente un nanosecondo: infilati a puntellare la collezione di Max e Ciak, giacevano, inermi nella loro glaciale solitudine, un Fratelli Karamazov, un Quarantanove racconti, un paio di cose dell’Arcana sui Pink Floyd e un dizionario d’inglese nuovo di fabbrica.

La collezione di videocassette toglieva il fiato, comunque: tutto Allen, tutto Scorsese, tutto Coppola, tutto Kubrick, tutto l’ultimo Verhoeven, tutto Malle; Kurosawa, il leggendario Aki Kaurismaki, Oliver Stone, Il gigante, Gioventù bruciata, La valle dell’Eden, cinque o sei titoli con Brando, e persino delle cose con attori che la nostra generazione aveva raramente sentito nominare: Jean Gabin, Louis De Funes, Peter Sellers. A voler strafare, andava già bene se il vecchio Alex aveva visto in vita sua meno della metà di tutta quella roba. E poi Fellini, Risi senior, Ferreri. Nan-ni Mo-ret-ti! Fran-ce-scAr-chi-bu-gi!

Okay. A parte questo, Martino l’aveva accolto in vestaglia, una sciccheria a scacchi buttata sopra un pigiama di qualche tessuto speciale che il vecchio Alex non aveva inquadrato con esattezza, essendo abituato al denim normale normale dei jeans e al cotone pakistano delle magliette punkeggianti della linea Rock and roll stars: play it loud, wear it proud.



Dall’archivio magnetico del signor Alex D. Sinceramente, Martino m’impressiona un po’… Dev’essere davvero in pace con se stesso. Deve aver raggiunto una qualche cavolo d’equilibratura interiore, se può girare in camicia da notte già pettinato e rasato, avvolto in tutti quei bei vapori di dopobarba e dentifricio mentolante. Uno così non può che essere felice. Son sicuro.

Gran personaggio, Martino. Ha dato per persi alcuni lati della vita e ne ha seguiti altri che piacessero a lui. Anche se il fatto che abbia lasciato perdere lo studio e lo sport per dedicarsi a tempo pieno alle ragazze, al cinema e ai viaggi all’estero, mi mette addosso un po’ di disagio.

Ma devo saperne di più. Capire meglio.

Martino è pieno di atteggiamenti interessanti. Solo che mi sta facendo venire un sacco di complessi. Mi sento una specie di sfigato senza scampo, confronto a lui. Voglio dire, lui certe volte mi fa sentire così. Cioè, lui fa tutto quello che può per mettermi a mio agio, ma cavoli, io non sarò mai come lui. Va dall’estetica per i punti neri, diobbuòno…

Va bene. Giuro che mi comprerò anch'io un bel pigiama e delle pantofole così di velluto.



(In quei giorni, nella coscienza del vecchio Alex si faceva largo a spallate la certezza che ad apparire tanto compiutamente benestanti anche quando si è soli —e cioè senza che nessuno sia lì a giudicare— ci guadagnava anche l’opinione che uno aveva per se stesso. Lui, invece, sempre a letto in boxer, in giro per casa con solo i pantaloni della tuta e una maglietta o una felpa quando faceva freddo, con le sue ciabatte scucite, che cazzo si significava? A questo livello d’introspezione, intendo.)



Il pannello delle foto si estendeva per tutta la lunghezza del letto e in altezza poteva essere più d’un metro. Non c’era granché spazio per eroi chitarristici o idoli degli stadi, in quella sfilza; in gran parte delle foto, anzi, Martino la faceva da leone: Martino neonato, in braccio forse alla madre; Martino col bavagliolo che mangia i resti del gelato con cui si è impiastricciato la faccia; Martino sorridente in braccio forse a suo padre. A seguire, una serie sul tema del carnevale, con Martino nei panni dei personaggi più gettonati dagli under 10 del periodo: Martino-Zorro, Martino-Sandokan, Martino-Goldrake eccetera, fino a una specie di Martino-samurai armato di notevole spada in plastica ed elmo piumato da combattimento. Poi, nella penultima serie, Martino in braccio agli amici della madre. Dei reduci sessantottini attualmente editori fricchettoni, avvocati liberal, professori precari. Tutta gente che non esitava a mostrarsi, apparentemente senza l’ombra d’un rimorso, con basette monumentali, camicioni flower power, dei baffi e determinati pantaloni a zampa d’elefante fra i più discussi e zootecnici del periodo; a chiudere: Martino in braccio agli ex compagni d’università del padre, dei mostri col fenotipo da campione di sport, capelli corti, denti in ordine, bei soldi eccetera. Passando in rassegna quelle foto, il vecchio Alex non si era stupito che i genitori di Martino avessero finito per separarsi. Di più: riusciva a immaginarsele, certe frecciate velenose degli amici trotzkisti di lei nei confronti degli amici sportivi di lui e viceversa. Adesso in ogni caso, i capitali di Marx e i diari boliviani del comandante Che, la madre di Martino li teneva ben allineati nella libreria di questa villa sui colli in cui viveva col figlio, mantenuta dall’ex marito, perfettamente a suo agio nei panni di Signora in clark’s che impiega il suo Passato Proletario solo per fornire qualche brivido esotico ai nuovi amici massonimprenditorialrottaryani.

Nelle ultimissime foto della sfilza, c’era Martino con un paio di ragazze che il vecchio Alex aveva intravisto nei corridoi del liceo. Sembravano felici, loro.

Chissà chi ha fatto le foto, si chiedeva il vecchio Alex.



(Se con una ragazza ci state veramente bene, dev’essere difficile trovare uno che vi faccia una foto senza rovinare tutto spiegandovi che non state sorridendo abbastanza. Bisogna avere molta cautela, con chi è felice.)



Quel che faceva franare il vecchio Alex su se stesso era l’idea che Martino, senza impegnarsi in nessuna attività in modo particolare, senza troppi pensieri e soprassalti disumani, ma così, in modo semplice, aveva presumibilmente trovato la felicità: dentro quella tana pubblicitaria delle timberland, aveva cominciato a roderlo il dubbio che la pace interiore, il nirvana, non fossero affatto delle condizioni da raggiungere —nel senso di corrergli dietro— come gli imponevano il Cancelliere, la mutter e la propaganda semiprussiana del liceo Caimani.



Dall’archivio magnetico del signor Alex D
. Alla fine, l’equilibrio interiore non è da cercare. Forse ce l’abbiamo già, e più ci muoviamo o agitiamo o altro, e più ce ne allontaniamo. Il fatto è che a parlare di equilibrio interiore mi sento un povero stronzo. Mi sembra uno di quei termini che si usano nelle sedute di psicoanalisi liberatoria collettiva o nei rifugi per donne violentate.

Okay. Tutto mi dice di essere forte, determinato negli scopi, capace di andare avanti nella Vita, ma se uno sente che è arrivato il momento di cambiare un po’rotta o anche solo un bisogno di fermarsi a ragionare sul serio per proprio conto? Voglio dire: e i cazzi di sette e mezzo in latino, per esempio, che da semplici strumenti sono diventati una specie di fine ultimo?… Insomma, a quanto ne so dovrei studiare per strappare un titolo di studio che a sua volta mi permetta di strappare un buon lavoro che a sua volta mi consenta di strappare abbastanza soldi per strappare una qualche cavolo di serenità tutta guerreggiata e ferita e massacrata dagli sforzi inauditi per raggiungerla. Cioè, uno dei fini ultimi è questa cavolo di serenità martoriata. Il ragionamento è così. Non ci vuole un genio. E allora, perché dovrei sacrificare i momenti di serenità che mi vengono incontro spontaneamente lungo la strada? Perché dovrei buttarli in un pozzo, se fanno parte anche loro del fine a cui tendere? Se un pomeriggio posso andare a suonare o uscire con una ragazza che mi piace, perché cavolo devo starmene in casa a trascrivere le versioni dal traduttore o far finta di leggere il sunto di filosofia? La realtà è che mi trovo costretto a sacrificare il me diciassettenne felice di oggi pomeriggio a un eventuale me stesso calvo e sovrappeso, cinquantenne soddisfatto, che apre la porta del garage col comando a distanza e dentro c’ha una bella macchina, una moglie che probabilmente gli fa le corna col commercialista e due figli gemelli con i capelli a caschetto identici in tutto ai bambini nazisti della Kinders. Tutti dentro il garage, magari, no. Diciamo più o meno intorno. Cioè, circondato. Dunque la domanda è: un orrore di queste proporzioni vale più del sole e del gelato di oggi pomeriggio? Più di una qualunque ragazza? Più di Valentina che arrivava sorridendo all’appuntamento con dieci minuti di ritardo e una maglietta blu con dentro quel ben di Dio sorprendente?

Voglio dire, le foto di Martino mi hanno dato la percezione reale della beffa: bastava stare fermi lì e cogliere l’occasione, Kazzo…

D’accordo, Martino fa praticamente la vita del gentil-giovane, ritirato nella sua tenuta di campagna, con gli appuntamenti dal barbiere segnati sul calendario, pochissimi obblighi e molti privilegi. Così dovremmo odiarci, visto che il sottoscritto viene dalla famiglia più medioborghese che c’è —una specie di macchinetta da guerra che mi ha già sagomato addosso determinati appuntamenti con lo Sbattersi per gli Obiettivi da Raggiungere e non correre il rischio di diventare un Adulto Pieno di Rimpianti. Okay. I miei saranno contenti. Sono talmente intraprendente e determinato e macchina da guerra che i rimpianti ce li ho già adesso.

Non lo so, ma a casa di Martino, mentre guardavo quelle cavolo di foto, ho provato la sensazione orribile di avere ucciso a uno a uno, giorno dopo giorno, quei ragazzi felici… Perché anch’io, forse, avrei potuto essere così felice. D’accordo, non ricco sfondato come Martino. Ma questo non è fondamentale per essere felici. Voglio dire, si può vivere bene anche senza molti soldi.

Ma forse le cose stanno addirittura peggio. Perché sono stato io a non prendermi quel che volevo. Come avessi abortito tutti i giorni, come non avessi mai permesso che quel ragazzo nascesse per paura di ritrovarmelo fra i piedi, per paura che sconvolgesse la mia vita. E così mi sono sempre concesso piccole felicità di polistirolo: andare ai giardini; restare a dormire tutto il pomeriggio; guardare Videomusic invece di studiare; fare fuga; mangiare molto; farmi una sega con devozione particolare...

Aquel sábado por la tarde en el que se debía dar inicio a la Noche Etílica Y Quédate A Dormir ConMigo, él había entrado por primera vez en la casa de Martino, sudado e incómodo en su punto. Afortunadamente, ningún güey ni ningún sirviente de librea deambulaba por los pasillos, carísimos, de la villa. La decoración del lugar era terriblemente parecida a la de la casa de la mujer que el protagonista bravucón de Naranja mecánica apaleaba a muerte usando el habitual falo de cerámica: Cuadros Antiquísimos, Fusiles de Caza, Tapices, la Kolección Kompleta de Platos Azules de Dinamarca…

En cambio, la recámara de Martino era exactamente como Alex se la había imaginado: la clásica guarida de quien acostumbra hacer lo que se le da su regalada gana y obtiene el mismo comportamiento de los demás habitantes. Quiero decir, todas las personas que se limitan a vivir a su alrededor sin asfixiarlo.

En fin, había este ambiente muy de guarida, pero la recámara era todo menos pequeña. Estaba sólo llena. Llena a reventar de cosas como en aquella estúpida publicidad de Timberland: carteles por doquier, ropa por doquier, colchas peruanas por todos lados, fotos por todos lados.

El viejo Alex hubiera podido quedarse horas ahí dentro, sólo para saber los nombres de los tipos retratados en las fotos pegadas en el panel de corcho que destacaba sobre la cama; o bien para leer los títulos de los discos y de los videocasetes. Para los libros, en cambio, hubiera sido suficiente un nanosegundo: colocados para apuntalar la colección de Max y Ciak, yacían, indefensos, en su helada soledad, un Los hermanos Karamazov, un Cuarenta y nueve relatos, un par de cosas de Arcana sobre los Pink Floyd y un diccionario de inglés nuevo y empacado.

De todos modos, la colección de videocasetes lo dejaba a uno sin aliento: todo Allen, todo Scorsese, todo Coppola, todo Kubrick, todo el último Verhoeven, todo Malle; Kurosawa, el legendario Aki Kaurismaki, Oliver Stone, Gigante, Rebelde sin causa, Al este del edén, cinco o seis títulos con Brando, y hasta películas con actores que nuestra generación no había ni escuchado nombrar: Jean Gabin, Louis de Funes, Peter Sellers. No exagero si digo que el viejo Alex no había visto en toda su vida ni la mitad de todo ese material. Y luego Fellini, Risi padre, Ferreri. Nan-ni Mo-ret-ti! Fran-ce-scAr-chi-bu-gi!

Okey. Además, Martino lo recibió en una bata cuadriculada muy chic puesta sobre una piyama de alguna tela especial que el viejo Alex no había identificado con exactitud, estando acostumbrado a la mezclilla común y corriente de los jeans y al algodón pakistaní de las playeras punketas de la línea Rock and Roll Stars: play it loud, wear it proud.



Del archivo magnetofónico del señor Alex D. Sinceramente, Martino me impresiona un poco… Tiene que estar de verdad en paz consigo mismo. Tiene que haber alcanzado algún puñetero estado de equilibrio interior si puede pasearse en piyama ya peinado y rasurado, envuelto en todos esos deliciosos vapores de lociones y pasta de dientes mentolada. Sólo así uno puede ser feliz. Estoy seguro.

Gran personaje, Martino. Hizo a un lado algunos aspectos de la vida y siguió sólo los que le gustaban a él. Aunque el hecho de que haya abandonado los estudios y el deporte para dedicarse de tiempo completo a las chavas, al cine y a los viajes al extranjero, me incomoda un poco.

Pero debo saber más sobre esto. Entender mejor.

Martino tiene muchas actitudes interesantes. Sólo que me está provocando un chorro de complejos. Frente a él me siento como una especie de perdedor sin salvación. Quiero decir, él algunas veces me hace sentir así. O sea, él hace todo lo que puede para que yo me sienta a gusto, pero carajo, yo no voy a ser nunca como él. Va al salón de belleza para quitarse los puntos negros, por Dios…

Está bien. Juro que yo también me voy a comprar una piyama chida y pantuflas de terciopelo como las de él.



(En esos días, en la conciencia del viejo Alex se abría camino la certeza de que verse exquisitamente rico aun estando solo —o sea, sin que nadie esté juzgando— sube la autoestima. Él, en cambio, siempre se iba a la cama en boxers, se paseaba por su casa en pants y playera o con una sudadera cuando hacía frío; con sus pantuflas descosidas, ¿qué carajo significaba? A este nivel de introspección, quiero decir.)



El corcho de las fotos se extendía por todo lo largo de la cama y tal vez medía más de un metro de alto. No había mucho espacio que digamos para héroes guitarristas o ídolos de los estadios, en esa serie; en la mayoría de las fotos, de hecho, Martino era el protagonista: Martino bebé, en brazos de su mamá, quizás; Martino con el babero comiéndose los restos del helado con el que se embarró la cara; Martino sonriente en brazos de su papá, quizás. Luego, una serie sobre el tema del carnaval, con Martino disfrazado de los personajes más famosos de los under 10 de la época: Martino-Zorro, Martino-Sandokan, Martino-Goldrake etcétera, hasta una especie de Martino-samurai armado con una imponente espada de plástico y un yelmo de combate emplumado. Luego, en la penúltima serie, Martino en brazos de los amigos de la madre. Veteranos del sesenta y ocho, actualmente editores inconformes, abogados liberales, profesores interinos. Todos personas que no dudaban en mostrarse, aparentemente sin la sombra de un remordimiento, con patillas monumentales, blusones flower power, bigotes y ciertos pantalones de pata de elefante, entre los más discutidos y zootécnicos del periodo. Para cerrar: Martino en brazos de los ex compañeros de universidad del padre, unos monstruos con el fenotipo de campeones del deporte, cabello corto, dientes perfectos, mucha lana, etcétera. Haciendo la reseña de aquellas fotos, el viejo Alex no se sorprendió de que al final los padres de Martino se hubieran separado. Es más: lograba imaginárselos, ciertas pedradas dolorosas de los amigos trotskistas de ella hacia los amigos deportistas de él y viceversa. Ahora, en todo caso, la madre de Martino tenía los capitales de Marx y los diarios bolivianos del comandante Che, muy bien alineados en los libreros de esta villa en las colinas donde vivía con el hijo, mantenida por el ex marido, perfectamente cómoda en el papel de Señora que utiliza su Pasado Proletario sólo para provocar uno que otro escalofrío exótico a los nuevos amigos masonempresariorrotarios.

En las ultimísimas fotos de la colección, Martino posaba con un par de chavas que el viejo Alex había visto de reojo en los pasillos de la prepa. Parecían felices, ellos.

Quién sabe quién tomó las fotos, se preguntaba el viejo Alex.



(Si uno está muy a gusto con una chava, difícilmente se encuentra a alguien que sepa tomarles una foto sin arruinar todo, comentando que no están sonriendo lo suficiente. Es necesario tener mucha cautela con quien es feliz.)



Lo que hacía colapsar al viejo Alex era la idea de que Martino, sin esforzarse de manera particular en ninguna actividad, sin demasiados pensamientos y sobresaltos inhumanos, sino así nada más, de manera sencilla, había encontrado presumiblemente la felicidad: adentro de aquella guarida publicitaria de los Timberland, empezaba a corroerlo la duda de que la paz interior, el nirvana, no fueran tanto metas por alcanzar —en el sentido de correr tras ellas— como lo imponían el Canciller, la mutter y la propaganda semiprusiana del Liceo Caimani.



Del archivo magnetofónico del señor Alex D. Al final, el equilibrio interior no se debe buscar. Tal vez ya lo tenemos, y entre más nos movemos o agitamos o cualquier otra cosa, más nos alejamos de él. El hecho es que cuando hablo de equilibrio interior me siento un pobre pendejo. Me parece uno de esos términos que se usan en las sesiones de psicoanálisis liberadoras y colectivas o en los refugios para mujeres violadas.

Okey. Todo me indica que debo ser fuerte, determinado en mis objetivos, capaz de salir adelante en la Vida, pero ¿y si uno siente que llegó el momento de cambiar un poco el camino, o tal vez sólo la necesidad de detenerse a razonar en serio por cuenta propia? Quiero decir: ¿y las chingaderas de los dieces en latín, por ejemplo, que de simples instrumentos se convirtieron en una especie de fin último?… En fin, por lo que sé uno debería estudiar para sacar un título que a su vez le permita agarrar un buen trabajo que a su vez le permita juntar suficiente dinero para conseguir algún méndigo tipo de serenidad totalmente peleada y herida y masacrada por los esfuerzos inauditos para alcanzarla. O sea, uno de los fines últimos es esta méndiga serenidad atormentada. El razonamiento es así. No se necesita ser un genio. Y entonces, ¿por qué tendría que sacrificar los momentos de serenidad que vienen a mi encuentro espontáneamente por la calle? ¿Por qué debería arrojarlos por la borda, si ellos también forman parte del fin que hay que anhelar? Si una tarde puedo ir a tocar o salir con una chava que me gusta, ¿por qué demonios debo quedarme en casa transcribiendo las versiones del traductor o fingir que leo el resumen de filosofía? La verdad es que me siento obligado a sacrificar al yo diecisieteañero feliz, de hoy en la tarde, por un eventual yo mismo calvo y con sobrepeso, cincuentón satisfecho, que abre la puerta de la cochera con el control remoto y adentro tiene un bello automóvil, una esposa que probablemente le pone los cuernos con el contador y dos hijos gemelos con el cabello de príncipe valiente idénticos en todo a los niños nazis de los Kindergarden. Tal vez no todos dentro de la cochera. Digamos más o menos alrededor. O sea, rodeado. Entonces la pregunta es: ¿un horror de estas proporciones vale más que el sol y el helado de esta tarde? ¿Más que una chava? ¿Más que Valentina que llega sonriendo con diez minutos de retraso a la cita y con una playera azul sobre esos magníficos atributos que Dios le dio?

Quiero decir, las fotos de Martino me dieron la percepción real de la burla: era suficiente quedarse quietos ahí y aprovechar la ocasión, Karajo…

De acuerdo, Martino vive prácticamente la vida del gentle-boy, retirado en su hacienda, con las citas con el estilista marcadas en el calendario, poquísimas obligaciones y muchos privilegios. En realidad deberíamos odiarnos, visto que el aquí presente proviene de la familia más clasemediera que existe —una especie de máquina de guerra que ya me ha programado determinadas citas con las Jodas por los Objetivos que hay que Alcanzar para no correr el riesgo de volverse un Adulto Lleno de Añoranzas. Okey. Mis padres estarán satisfechos. Soy tan decidido y determinado y máquina de guerra que las añoranzas las tengo ya ahora.

No lo sé, pero en casa de Martino, mientras veía esas pinches fotos, tuve la sensación horrible de haber matado uno por uno, día tras día, a aquellos muchachos felices… Porque también yo, tal vez, hubiera podido ser tan feliz. De acuerdo, no podrido en dinero como Martino. Pero esto no es fundamental para ser feliz. Quiero decir, se puede vivir bien aun sin mucho dinero.

Pero tal vez las cosas están incluso peor. Porque fui yo el que no tomó lo que quería. Como si hubiera abortado todos los días, como si no hubiera nunca permitido que aquel chico naciera, por miedo a tropezarme con él, por miedo a que me arruinara la vida. Y por eso siempre me he concedido pequeñas felicidades de poliestireno: ir al parque; quedarme dormido toda la tarde; ver Videomusic en lugar de estudiar; irme de pinta; comer mucho; jalármela con particular devoción...




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Ilustración:
Luca Bray, Buscándote, óleo/tela, 140x140 cm


Enrico Brizzi (Nice, 1974). Vive en Bolonia desde 1976. Publicó su primer libro, Jack Frusciante è uscito dal gruppo (Transeuropa, 1994), cuando no había cumplido los veinte años. El libro fue traducido a varios idiomas inmediatamente y se llevó a la pantalla en 1996; ha sido uno de los más importantes fenómenos editoriales de la segunda mitad del siglo XX en Italia. También ha publicado Bastogne (Baldini & Castoldi, 1996), Tre ragazzi immaginari (Baldini & Castoldi, 1998) y Razorama (Mondadori, 2003), además de varios cómics y novelas gráficas.